sabato 1 agosto 2009

Clandestino

Qualche giorno fa la testa della gnoma si è sonoramente schiantata contro la rete del letto... Non era la prima volta che cadeva, ovviamente, ma era la prima volta che vedevamo due bei marchi sulla sua fronte... Ci siamo un po’ spaventati, e abbiamo deciso di portarla al pronto soccorso di quello stesso ospedale in cui è nata... Niente di grave, per fortuna. Siamo stati rispediti a casa con l’ordine di tenerla sotto controllo per quarantotto ore.

L’ospedale era tappezzato di manifesti in tutte le lingue possibili e immaginabili che recitavano pressappoco: Nonostante la proposta di legge che obbliga i medici a denunciare i clandestini, vi assicuriamo che qui non si denuncia nessuno. La seconda parte era scritta con caratteri cubitali e in grassetto, tanto per essere sicuri che il concetto passasse. Bravi, ho pensato.

Si parlava di proposta di legge, chissà ora che il pacchetto sicurezza è legge, invece, cosa accadrà. Devo dire che però alcuni manifesti andavano subito al sodo: QUI NON SI DENUNCIA NESSUNO, e questo è bastato a rassicurarmi. Mi è venuto da sorridere, nell’amarezza e nella tristezza, e da pensare che ormai i ribelli e i rivoluzionari non si nascondono nei boschi, ma hanno cambiato faccia e indossano il camice bianco. Scioccamente ho provato orgoglio per aver deciso di far nascere la gnoma, dopo innumerevoli dubbi e visite in quindici ospedali diversi, proprio là (così mal che vada ci puoi arrivare pure a piedi, diceva mia madre ridendosela. D’altronde, si sa, camminare accelera il travaglio. Aveva visto lungo, data l’interminabilità del mio).
Tornando a noi, passare quelle due orette in quel pronto soccorso mi ha fatto ricordare una scena di qualche anno fa...

Ero al liceo, forse all’ultimo o al penultimo anno, e con un gruppo di amici eravamo andati al Social Forum di Firenze... Un’esperienza bellissima... Partiti così, senza null’altro che un sacco a pelo... Altro che le trasferte di adesso, che sembrano traslochi..

Ad ogni modo, mentre eravamo là, non mi ricordo assolutamente né come né dove, venimmo avvicinati da due ragazzi curdi che ci chiesero non ricordo che informazioni, in non ricordo neppure che lingua... Era un periodo in cui io ero fissatissima sul Kurdistan... Avevo scritto almeno due o tre tesine sul Kurdistan, sulla storia dei Curdi, sull’identità del popolo curdo... Parlammo un po’, si fidarono di noi, e ci dissero che dovevano prendere il treno per la Francia. Li accompagnammo alla stazione, ma il treno era già partito... Erano clandestini, e quando dissero che sarebbero partiti il giorno dopo, decidemmo che avrebbero passato la serata con noi, in modo da non insospettire nessuno. Se penso che si tratta di pochi anni fa, mi viene il magone... Noi ci eravamo fidati, non c’era questo clima di terrore dello straniero... Fu naturale per noi decidere di mangiare un kebab tutti insieme, per farli sentire un po’ più a casa, e portarli nella palestra preparata per i ragazzi del Social Forum.. Si pagavano 10 euro a testa, e distribuivano coperte per tutti. Demmo loro le nostre coperte, tanto noi avevamo i sacchi a pelo. Io diedi a uno dei due, il più giovane, la mia felpa preferita. Era grigia con una tasca con la zip davanti, a mò di marsupio. Devono aver sofferto ugualmente il freddo, credo... Eravamo io, il mio migliore amico e loro due. Dove fossero andati a dormire gli altri non me lo ricordo assolutamente! Il giorno dopo passammo ancora la giornata insieme, seguimmo non so quale conferenza (che loro, non capendo nulla, dovettero trovare noiosissima), e la sera li accompagnammo alla stazione. Il ragazzo più giovane voleva ridarmi la felpa, ma io gliela lasciai. Mi piaceva pensare che, se tutto fosse andato bene, una parte di me sarebbe riuscita nell’impresa insieme a loro. E poi, sicuramente nelle notti a venire lui ne avrebbe avuto più bisogno di me, che sarei tornata a casa e avrei avuto felpe a bizzeffe.

Li salutammo augurando loro ogni bene. Ci dissero che ci avrebbero chiamati, una volta arrivati in Francia. Non lo fecero, e quando ormai avevamo perso le speranze di avere loro notizie, un nostro amico li vide al telegiornale nel corso di una manifestazione (o una rivolta, non ricordo bene) che era scoppiata in qualche parte della Francia. Ce l’avevano fatta. Erano là.

Avevamo programmato di restare qualche giorno in più a Firenze per visitarla meglio. Invece partimmo lo stesso giorno, come se il nostro ruolo lì, in quel preciso momento, si fosse esaurito. Avremmo visto Firenze degnamente in un’altra occasione (cosa che invece io non ho ancora fatto, per ironia della sorte).

Non mi ricordo neppure i loro nomi (forse uno dei due si chiamava Tarek, ma non ne sono sicura), eppure penso spesso a loro, e mi auguro che un giorno le nostre strade s’incontrino di nuovo, solo per poterli riabbracciare. Chissà se mi riconoscerebbero... Io sicuramente sì, da qualche parte ho una loro foto...

Allora noi, due ragazzi di diciotto anni scarsi, facemmo, credo, il nostro dovere. Non so se quello che avevamo fatto si potesse esattamente considerare un atto legale. Non so se quello che avevamo fatto si potesse esattamente considerare un atto legale. Ma io ne sono orgogliosa lo stesso. E non ho paura di dire che, se riaccadesse, farei la stessa identica cosa. Ho sempre pensato che vivere nella legalità dovrebbe garantirti, teoricamente, di dormire sonni tranquilli. Ovviamente non basta vivere nella legalità per essere in pace con la propria coscienza, ma dovrebbe essere un punto di partenza. Quello che il nostro paese sta facendo ai “clandestini”, invece, mi porta a pensare l’esatto contrario. In questo caso la legalità e la nostra coscienza, quella degli esseri umani per lo meno, e sottolineo il termine “umani”, non possono essere sullo stesso binario. E questo mi crea un problema di coscienza non indifferente.


1 commento:

  1. Certamente l'aria che tira in Italia è cambiata molto negli ultimi anni. Sembra che la gente tema gli extracomunitari (magari inculcati dalla TV) e io da parte mia, (nativa brasiliana,ma italiana per scelta) quando sono in giro per posti in cui non mi conoscono (settimana scosa ero a Milano per due giorni), sono tittubant nel chiedere informazioni, cosa che non succedeva, quando sono arrivata in Italia 17 anni fa, perché temo quello che la gente potrebbe pensare di me... Fa strano, ma è proprio cosi, magari la gente mi teme e io al pensiero che possano temermi, mi sento a disaggio. Non è bello per nessuno l'aria che tira.
    Questa è l'era delle diaspore. Dobbiamo farcene una ragione, per gestire la cosa nel modo giusto.

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