venerdì 5 giugno 2009

La speranza

C'è una persona che accende ancora quella passione, quel fuoco, quella luce quando leggo di politica. 
Quando ormai credevo che quel fuoco fosse ormai spento per sempre, e che potesse esserci solo spazio per l'indignazione, per la rabbia, improvvisamente sentii un discorso di Obama. Ero in Egitto, la tv era araba, e il discorso era tradotto. Era tantissimo tempo fa, non ricordo precisamente quanto, ma ricordo che ancora nessuno pensava che avrebbe davvero potuto essere lui il candidato democratico. L'idea faceva un po' sorridere tutti. Ma io ci credevo.
Pensai che mi piaceva. Cercai il suo discorso in inglese, e mi piacque ancora di più. Da allora, oh, sarò ingenua, ma me ne sono infatuata, ovviamente politicamente parlando. 
Poi divenne sempre più chiaro che avrebbe vinto. Disse che avrebbe chiuso Guantanamo, e io pensai che l'avrebbe fatto per davvero, che non era una promessa che non avrebbe mai mantenuto (anche perché gli americani non sono gli italiani). 
Avevo sempre provato un certo fastidio per la politica statunitense. Con Obama per me è cambiato tutto. Ho finanche seguito la maratona elettorale e sentito il suo primo discorso da Presidente, cosa che mai avrei pensato di fare.
Senza dubbio molto resta da fare, e tanti dubbi si pongono, come la questione dell'impunità per i carcerieri di Guantanamo, che mi fa inorridire.
Ma io, nonostante tutte le contraddizioni che credo siano inevitabili per un uomo che siede alla Casa Bianca, lo ammiro.
Mi piace. E mi è piaciuto il suo discorso ieri al Cairo.
Mi è piaciuto che abbia esordito con un "As-salam alaykum", per cominciare. 
Mi è piaciuto che abbia parlato di Israele certo, ma anche di Palestina, del diritto dei palestinesi ad avere una patria, di Iran, della possibilità che anche l'Iran abbia un nucleare "pacifico", del fatto che è profondamente ingiusto che alcuni stati possano essere dotati di armi nucleari e altri no, di diritti delle donne, le cui violazioni nulla hanno a che fare con l'Islam, dell'enorme ricchezza della cultura islamica e di quanto ad essa dobbiamo, di microcredito, di sviluppo, di fonti energetiche rinnovabili.
Mi è piaciuto che un presidente americano si sia ricordato che paesi a maggioranza musulmana siano stati capaci di eleggere a capo del governo una donna, cosa che in molti paesi occidentali è ancora un sogno lontano (d'altronde, finché si candida la Santanché... lo spero bene).
Che si sia ricordato dei musulmani americani che lottano per il loro paese tanto quanto i cristiani americani.
Questo, in particolare, mi è piaciuto:

"Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme per uno sforzo - un lungo e impegnativo sforzo - per trovare un comune terreno di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani."

Insomma. Quest'uomo non potrà di certo fare i miracoli, ma sicuramente un Presidente che si ribella alla logica dello "scontro di civiltà" non può che affascinarmi.
E io, sarò anche un'illusa, ma ci credo un po'. E vorrei sbattere questo discorso in faccia a quelle persone meschine che invece sono al nostro governo, che non hanno neppure un decimo della sua statura politica, che sono a confronto il peggio della politica intesa nel peggior senso possibile, che occupano quel posto soltanto perché ci siamo ridotti ad essere pecore, incapaci di leggere i segnali del mondo che cambia, imbrigliati nella logica del discorso razzista che ci sovrasta, diverso = pericolo, sempre e comunque. Gente che alla vigilia del voto europeo dice "C'è chi vuole una società multicolore e multietnica, noi non siamo di questa opinione", lamentandosi che Milano sembra una città africana. Milano dovrebbe ricordarsi, come l'Italia tutta, che se va avanti, è grazie alle migliaia di donne che si umiliano ogni giorno a pulire il culo dei nostri anziani per consentire alle nostre donne e ai nostri uomini in carriera di arricchirsi anche grazie a loro. Alle migliaia di uomini che muoiono per costruire case che poi crolleranno. Alle migliaia di donne che puliscono le nostre case o che tengono i nostri figli, perché ormai una donna emancipata è una donna che si spoglia di quei ruoli che l'hanno tenuta ingabbiata per generazioni: la casa, gli anziani, i figli. Ma non lo fa dividendo le sue responsabilità con un uomo, per carità. Non sia mai che ribaltiamo lo stereotipo della società patriarcale. L'uomo lasciamolo stare sul suo piedistallo. Piuttosto, incrementiamo la schiavitù di altre donne. Da schiave ci siamo trasformate in schiaviste. Milano, come l'Italia tutta, dovrebbe ricordarsi, che se va avanti,  è grazie a decenni di colonialismo. Ma non parliamo del passato, per carità, parliamo delle risorse che continuiamo a sfruttare, a poco prezzo. Parliamo delle donne e degli uomini che sfruttiamo oggi.

Ma in fondo non è neanche questo che vorrei fare. In fondo vorrei, semplicemente, che più gente parlasse come Obama. Penso al PD italiano e mi viene lo sconforto.
Vorrei che non vivessimo ingabbiati in un discorso razzista, inteso a la Foucault, ma che fossimo capaci di crearne un altro, diverso. E di viverlo. Perché il razzismo dovrebbe oggi essere inaccettabile. E invece è la norma.

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